Messaggio per la Giornata mondiale della Vita Consacrata 2025

Messaggio All’Ordine Carmelitano IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DELLA VITA CONSACRATA

Questo messaggio, che intende celebrare la Giornata mondiale dei religiosi nell’anno giubilare 2025, è rivolto principalmente ai miei confratelli carmelitani. Ciò che voglio condividere può risultare interessante anche per gli altri membri della famiglia carmelitana, in particolare per le monache di clausura. In queste pagine vorrei affrontare tre temi: la vita consacrata, il riconoscimento e la correzione fraterna e il significato dell’anno giubilare per noi religiosi carmelitani.

Vita religiosa

La vita che viviamo come religiosi consacrati è una risposta alla vocazione a seguire Gesù.

Così come Gesù chiamò Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni e gli altri discepoli, allo stesso modo chiama anche noi. In ogni vocazione riecheggia quella chiamata originaria: “lasciarono tutto e lo seguirono”.

La vita che abbiamo abbracciato è quella che si è sviluppata nel corso dei secoli e si esprime oggi nella vita dei religiosi e delle religiose che appartengono a ordini, congregazioni e società, di vita contemplativa e di vita apostolica, tutti con l’unico scopo di dedicare la loro vita a Gesù Cristo. Lo stile particolare di sequela di Gesù Cristo che si delinea per noi carmelitani è indicato nella nostra Regola: Dobbiamo “vivere in ossequio di Gesù Cristo e servirlo fedelmente con cuore puro e retta coscienza” (Regola 2). Dobbiamo farlo in una comunità che sceglie colui che sarà il priore, al quale ogni frate “prometterà obbedienza e si preoccuperà di mantenere la promessa con i fatti, insieme alla castità e alla rinuncia alla proprietà”. (Regola 4)

Gesù è per noi la piena rivelazione del Padre, “chi vede me vede il Padre”, e Gesù è per noi il modello di chi è povero, con i poveri, casto nel relazionarsi con gli altri e obbediente nel discernere e seguire la volontà di Dio, che si trova soprattutto nel discernimento della comunità che prega insieme.

Nell’auspicare il rinnovamento della vita religiosa, i padri del Concilio Vaticano II nel Decreto sulla Vita Religiosa, Perfectae Caritatis, hanno illustrato la direzione che il rinnovamento dovrebbe seguire riconducendo i nostri pensieri a Gesù Cristo, con queste parole: “In tanta varietà di doni, tutti coloro che, chiamati da Dio alla pratica dei consigli evangelici, ne fanno fedelmente professione, si consacrano in modo speciale al Signore, seguendo Cristo che, casto e povero (cfr. Mt 8,20; ¿c9,58), redense e santificò gli uomini con la sua obbedienza spinta fino alla morte di croce” (cfr. /7/2,8).

Il documento continua: “Così essi, animati dalla carità che lo Spirito Santo infonde nei loro cuori (cfr. Rm 5,5) sempre più vivono per Cristo e per il suo corpo che è la Chiesa (cfr. Co! 1,24). Quanto più fervorosamente, adunque, vengono uniti a Cristo con questa donazione di sé che abbraccia tutta la vita, tanto più si arricchisce la vitalità della Chiesa ed il suo apostolato diviene vigorosamente fecondo.” (Perfectae Caritatis, 1) Ho dovuto citare questo passaggio per intero per gettare le basi di qualsiasi cosa io possa dire o pensare sulla vita religiosa. Come carmelitani consideriamo il nostro stile di vita innanzitutto come un modo di vivere in ossequio di Gesù Cristo. La specifica forma di vita carmelitana si identifica per la sua natura contemplativa, nella preghiera, nella fraternità e nel servizio, seguendo gli esempi di Maria e di Elia.

Crediamo che come carmelitani siamo chiamati a seguire Cristo come fratelli che vivono in comunità. È un dato di fatto che molti di noi siano giunti ad entrare nell’ordine desiderando diventare sacerdoti, ma, come abbiamo detto, sacerdoti che vivono in comunità. Ciò significa che con il tempo e la formazione è cresciuto il nostro desiderio di essere fratelli oltre che sacerdoti. Molti altri sono arrivati al nostro Ordine con il desiderio specifico di essere fratelli che vivono in comunità. Hanno incontrato un ambiente largamente formato intorno al sacerdozio, anche se la loro vocazione poteva riflettere più chiaramente la vocazione dei fondatori nel Monte Carmelo e la tradizione che è perdurata nel nostro Ordine nel corso dei secoli, nonostante sia stato classificato come ordine clericale a partire dal 1247, ossia quella di considerarci fratelli che vivono in comunità sotto il titolo di Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo.

In linea con la Regola di Sant’Alberto, il nostro Ordine è nato come un ordine di eremiti, chiamati fratelli dall’autore della Regola, che vivevano come eremiti in celle assegnate dal priore, sul Monte Carmelo, meditando giorno e notte la legge del Signore, lasciando le loro celle per stare con i fratelli, per la preghiera, i pasti e il discernimento, e lasciando che i fratelli tornassero alle loro celle per dedicarsi all’ascolto e alla meditazione della legge di Dio.

A un certo punto del nostro cammino, probabilmente durante il Capitolo generale del 1247, l’ordine Carmelitano ha messo da parte il suo status laicale e ha assunto l’identità di ordine clericale. Da quel giorno a oggi, l’identità clericale dell’ordine è stata un fattore determinante in tutto ciò che il nostro Ordine ha fatto. Abbiamo visto come il nostro servizio alla Chiesa si è svolto principalmente mediante il ministero sacerdotale. La nostra identità come frati è passata in secondo piano e coloro che si sono sentiti chiamati alla vita religiosa come frati si sono trovati a vivere nella comunità come servitori della stessa nei modi più svariati, compresi i lavori più umili, mentre i sacerdoti ordinati svolgevano il lavoro di evangelizzazione e di ministero. Forse oggi questa immagine sta cambiando.

Oggi, con il rescritto emanato da Papa Francesco nel maggio 2022, possiamo cogliere l’invito per noi carmelitani a riconsiderare la natura della nostra vita come frati. È ora possibile che coloro che sono membri professi solenni del nostro ordine, che siano ordinati o meno sacerdoti, possano essere scelti dai fratelli come priori nella comunità locale, nella provincia e nell’intero Ordine.

Quando si tratta di prendere decisioni nel nostro Ordine, è sorprendente quanto le nostre decisioni e il nostro stile di vita siano determinati dalla predominanza di sacerdoti tra i nostri membri. Guardo ai temi e agli orientamenti di molti capitoli, congregazioni generali e consigli di provincia degli ultimi decenni. A parte un piccolo numero di eventi formativi dedicati al ministero parrocchiale e al ministero nei nostri santuari, nient’altro nelle nostre proposte o nei nostri eventi formativi fa riferimento al ministero sacerdotale. I temi scelti dal Capitolo generale del 1977 come temi di lavoro per il sessennio successivo ne sono un’ottima dimostrazione. Questi temi riguardavano la Preghiera, la Fraternità, la Formazione, l’internazionalità e i temi di Giustizia, Pace e Integrità del Creato. Nessuno di questi temi si riferisce specificamente al sacerdozio, ma piuttosto alla nostra vita come discepoli di Cristo, che fanno tutto secondo la Parola di Dio.

Nonostante questo quadro molto chiaro, noi frati abbiamo tardato a mettere in pratica le conclusioni di tutti quegli incontri e di tutta quella formazione, probabilmente a causa del nostro modo di pensare clericale. Il fatto che molti di noi siano sacerdoti, e che i nostri pensieri siano quotidianamente centrati sul nostro sacerdozio, ci ha impedito di dedicare tempo alle misure e alle azioni che ci aiuterebbero a crescere come frati, seguendo Cristo, vivendo e discernendo in comunità, per poi porsi al servizio della Chiesa e contribuire a condurre le persone a una conoscenza sempre più profonda dell’amore di Dio, che è un altro modo per parlare di salvezza.

Che cosa potrebbe significare per noi rivedere il cammino che abbiamo fatto in tutti questi anni di rinnovamento, mettere da parte le preoccupazioni che abbiamo come sacerdoti e considerarci prima di tutto fratelli che vivono in comunità, in compagnia di Maria, Madre e Sorella, con l’impegno di seguire Cristo, povero casto e obbediente, meditando costantemente la sua Parola e condividendo questa saggezza tra di noi e tra coloro con cui lavoriamo nella cura delle persone e nell’edificazione del corpo che è la Chiesa.

Abbiamo agito bene continuando a riunirci in capitoli, a studiare le nostre fonti, a scrivere le nostre costituzioni, che parlano molto più del nostro essere fratelli che del nostro essere sacerdoti. In qualche modo dobbiamo toglierci le scaglie dagli occhi e vedere che è nell’affrontare le sfide della vita religiosa che realizzeremo la nostra vocazione e in questo modo saremo sacerdoti migliori a beneficio della Chiesa e di quei membri della Chiesa che si aspettano di vedere in noi la saggezza e la bellezza che la nostra tradizione racchiude.

Tra i molti doni che Dio ha fatto alla sua Chiesa, il dono del Carmelo ha il compito di fare la sua parte per poter completare il mosaico.

Oggi dobbiamo anche affrontare la questione della vita mendicante. Gli ordini mendicanti sono nel XIII secolo. Non essendo legati alla stabilità di un monastero, i mendicanti si consideravano in movimento, principalmente come predicatori e costruttori di comunità, il cui sostentamento dipendeva dalla generosità della gente. I mendicanti accettano idealmente di vivere e sopravvivere sulla base di ciò che viene loro dato dal popolo per sostenerli. Ora che parliamo di come sostenere economicamente la nostra vita, ci troviamo a parlare di investimenti in immobili e in azioni, di formazione professionale per professioni che possano fruttare un reddito. Tutto questo potrebbe suonare strano alle orecchie di chi si sente chiamato a essere un mendicante e a vivere in mezzo alla gente facendo in modo che si provveda a tutti i suoi bisogni. Ho visitato comunità del nostro Ordine che raramente hanno bisogno di comprare cibo. È la gente che provvede loro ogni cosa. Forse è così che dovrebbe essere per tutti noi.

Riconoscimento fraterno, correzione fraterna Affinché possiamo vivere come fratelli in comunità, sono necessarie una serie di competenze che già possediamo o che dobbiamo acquisire, se non le possediamo già in partenza. La nostra vita in comunità è un’espressione di giustizia, dove per giustizia intendiamo una giusta relazione. Nella nostra vita dobbiamo cercare di avere un giusto rapporto tra noi e Dio, un rapporto nel quale cresciamo fino alla maturità e in cui la gloria di Dio si manifesti in noi. Dobbiamo sforzarci di avere relazioni corrette tra di noi come fratelli chiamati a vivere in comunità, in modo che queste relazioni ci aiutino a crescere insieme e non vengano sminuite in alcun modo. Dobbiamo anche avere un rapporto corretto con noi stessi e con il mondo in cui viviamo. Le relazioni giuste o corrette permettono ai soggetti coinvolti di giungere alla maturità.

Il mio interesse principale in questa riflessione è il modo in cui ci relazioniamo gli uni con gli altri come fratelli che vivono in comunità. La castità non è mai l’assenza di relazione, ma piuttosto il riconoscimento che dobbiamo relazionarci in qualche modo con tutti i nostri fratelli e questa relazione deve essere una relazione d’amore in cui ci aiutiamo a crescere attraverso la vita che professiamo insieme.

Se da un lato riconosciamo questo bene e i molti talenti che ogni fratello ha, dall’altro vediamo che è positivo poter esprimere il nostro apprezzamento per i fratelli e trovare il modo di impiegare i talenti di ciascuno per l’edificazione della nostra comunione. Abbiamo tutte le ragioni per essere positivi nei confronti dei nostri confratelli, anche se non conosciamo o non apprezziamo ciascuno di loro allo stesso modo. Il riconoscimento è la capacità di riconoscere e far emergere il bene che c’è nei nostri confratelli. È una capacità positiva che mostra un profondo apprezzamento per ciò che è buono e per ciò che funziona bene. Si avvicina a un tipo di preghiera che dice: “Rendo grazie a Dio perché sei qui. Farò tutto ciò che è nelle mie possibilità per rendere la tua felicità piena e, se Dio vorrà, vivremo a lungo in comunione fraterna.

Parallelamente al riconoscimento fraterno, occorre guardare anche alla necessità della correzione fraterna, riconoscendo che tutti noi sbagliamo nel tentativo di soddisfare l’ideale che la nostra vocazione incarna. I nostri fallimenti non devono costituire il fattore determinante della nostra vita, ma piuttosto essere la provocazione che ci spinge a sforzarci di essere autentici e sinceri e a vivere il tipo di vita che abbiamo professato fin dall’inizio.

Il 15° capitolo della nostra Regola è di vitale importanza. Nella misura in cui le dimensioni della nostra vita sono molteplici, questo capitolo ci chiede di prendere in considerazione tutti questi aspetti e esaminare la vita che stiamo vivendo in comunità, in termini di salute e di ordine che c’è, o forse non c’è, nella comunità. Se in questo esame, che facciamo insieme, riscontriamo degli eccessi, questi devono essere corretti con amore.

Nel Testamento ebraico, Dio promise una terra dove scorreva latte e miele a coloro che avrebbero seguito la sua legge. Attraverso i profeti, Dio ha anche corretto il suo popolo perricondurlo all’alleanza. I libri sapienziali ci dicono che una vita senza correzione non può essere una vita piena. Il Libro dei Proverbi dice più concisamente: “Chi ama la correzione ama la scienza, chi odia il rimprovero è uno stupido” (Pr 12,1). Il profeta Isaia rende molto chiara la necessità della correzione quando dice: “Non digiunate più come fate oggi, così da fare udire in alto il vostro chiasso. È forse come questo il digiuno che bramo, il giorno in cui l’uomo si mortifica? Piegare come un giunco il proprio capo, usare sacco e cenere per letto, forse questo vorresti chiamare digiuno e giorno gradito al Signore? Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?”. (Is 58,5-7)

Nei Vangeli, Gesù offre vita in abbondanza a tutti coloro che credono in lui. Nei nostri momenti buoni, sappiamo tutti cosa può significare questa abbondanza di vita, in quelle occasioni in cui ci sentiamo travolti dalla bellezza di ciò che siamo e di ciò che stiamo facendo, nel luogo e con le persone con cui le stiamo facendo. Altre volte, percepiamo la povertà della nostra vita, siamo consapevoli delle debolezze che vorremmo non avere, sentiamo di aver commesso degli errori e non sappiamo come ripararli. Andiamo avanti e speriamo che le cose migliorino. Il Vangelo, però, ci invita a qualcosa di meglio. Nel Vangelo troviamo le storie del figlioi prodigo, di Zaccheo l’esattore delle tasse, della Samaritana che parla con Gesù mentre attinge acqua dal pozzo e dell’incontro tra Maria ed Elisabetta, sua cugina, quando entrambe erano incinte del loro primo figlio.

In ognuna di queste storie c’è una scoperta. Il figliol prodigo scopre la povertà e la disperazione della sua situazione e torna a casa. Zaccheo scopre la persona di Cristo come qualcuno che può elevarlo al di sopra della vita che stava vivendo come esattore delle tasse.

La Samaritana, nel colloquio con Gesù, scopre la verità sulla propria vita e la verità su Gesù, il profeta, e proclama alla gente del villaggio di aver incontrato qualcuno che le ha detto tutto di sé, e tutto ciò che ha scoperto è stato buono e positivo. Nel racconto della visitazione, vediamo Maria ed Elisabetta che si aiutano a vicenda a realizzare il dono ricevuto da Dio, ognuna con un figlio, ognuna riconoscendo il dono di Dio in sé e nell’altra. La correzione fraterna è la via per una vita migliore e più piena, riconoscendo ciò che Dio ci ha dato e lasciando che questo plasmi il nostro modo di vivere.

Nelle lettere di Paolo, Giacomo e Giovanni, tutte con l’idea di costruire una comunità, troviamo l’incoraggiamento a pregare gli uni per gli altri, a parlarsi direttamente e a correggersi a vicenda nell’amore. La lettera ai Galati dice così: “Fratelli, se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi, che avete lo Spirito, correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu. Portate i pesi gli uni degli altri: così adempirete la legge di Cristo” (Gal 6,1-2).

Infine, abbiamo le parole di Francesco: “La correzione fraterna è un aspetto dell’amore e della comunione che devono regnare nella comunità cristiana, è un servizio reciproco che possiamo e dobbiamo renderci gli uni gli altri”. Dobbiamo essere capaci di parlare direttamente al nostro fratello e non permetterci mai di fare pettegolezzi sulle sue mancanze. (Angelus, 7 settembre 2014) Quali sono le cose da correggere nella nostra vita?

Tutti abbiamo bisogno dell’aiuto degli altri per capire cosa Dio sta facendo nella nostra vita.

A volte è necessaria una correzione per purificare la mia comprensione di Dio e di ciò che Dio sta facendo nella mia vita. Molto spesso usiamo Dio per giustificare il modo in cui abbiamo scelto di agire. Potrei aver bisogno di una correzione nell’immagine che ho di me stesso. Un principio fondamentale per poter costruire relazioni sane è che ognuno di noi deve conoscere se stesso. Potrei aver bisogno di aiuto per vedermi come mi vedono gli altri. Potrei aver bisogno di aiuto e correzione per partecipare più pienamente alla vita comunitaria. Potrei aver bisogno di aiuto per prendermi cura di me stesso per la salute della comunità. Il mio modo di esprimermi, la mia attenzione all’igiene personale, le mie assenze dalla comunità, la mia tendenza a imporre la mia volontà e la mia difficoltà a condividere ed essere aperto e trasparente sulla mia vita, sono tutte occasioni di crescita nella misura in cui sono in grado di correggere dò che non va per il mio bene e per il bene della comunità.

Non ci può essere correzione fraterna senza riconoscimento fraterno. Nessuno risponde bene alle critiche continue. Ci sarà sempre qualcosa da riconoscere e da correggere.

Tuttavia, riconosciamo che la correzione è una necessità universale. Rifiutare la correzione è mancanza di saggezza. Non sarà l’altro a correggermi. Devo essere io a correggermi.

L’altro può aiutarmi a farlo. Ogni correzione deve essere fatta con amore, con il desiderio di edificare e non di abbattere. Non è facile correggere o essere corretti. Perciò deve essere vista come una responsabilità che ciascuno ha verso se stesso e verso la comunità a cui appartiene. Il Vangelo ci avverte di non agire troppo in fretta per correggere un’altra persona: “Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello” (Le 6,42).

Possibili metodi di correzione

Se abbiamo compreso e accettato la necessità di correzione e riconoscimento, ci poniamo la domanda: come esercitare al meglio la correzione? Ecco alcune possibili risposte. 1) Leggendo la lettera di Giacomo, vediamo come una comunità si riunisce per pregare per la guarigione e la riconciliazione. Una comunità che lo fa regolarmente è una comunità sana.

Il riconoscimento della debolezza e dell’errore implica il desiderio di superare dò che ci indebolisce. Questo desiderio si trasforma in preghiera, riconoscendo la necessità di essere guidati e rafforzati dalla grazia divina, per costruire l’unità che rende la comunità una realtà positiva (Gc 5, 16-20).

Nel Vangelo di Matteo ci viene proposto un triplice approccio alla correzione fraterna, basato sul desiderio che nessuno vada perduto. Ecco il brano: Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.

Cerco di immaginare come potrebbe essere questo processo in tre fasi in una comunità normale: ho una difficoltà con uno dei miei fratelli, si tratta di una difficoltà personale, senza effetti sulla vita della comunità. Cerco il momento giusto per poter avere una conversazione con lui. In quella conversazione vediamo la difficoltà da entrambe le parti e concordiamo di cambiare il nostro comportamento e di accettare le nostre differenze. Ho una difficoltà con un mio confratello, che credo riguardi non solo me ma anche la vita della comunità. Inizio a

6parlare con quel fratello. Lui accetta quello che gli dico, mi ringrazia per essere intervenuto e il cambiamento avviene. Rifiuta ciò che ho da dire, si chiede cosa mi dia il diritto di cercare di correggerlo, mi cita le Scritture che parlano della pagliuzza nel mio occhio. Non ottengo molto e la difficoltà continua. Ne parlo con altri confratelli che condividono la difficoltà.

Insieme decidiamo di avvicinarci al fratello sperando che, quando vedrà che non sono solo 10 ma anche altri a vedere la difficoltà, possa accettare la correzione e che le cose cambino.

Ciò non accade e allora ci si chiede se il comportamento di questa persona e i suoi atteggiamenti lasciano pensare che non sia adatto alla comunità. A quel punto, la permanenza di quel fratello in quella comunità viene messa in discussione. 3) Non perdiamo completamente di vista il metodo della tradizione chiamato Capitolo delle colpe. Se vogliamo usare questo metodo, deve essere chiaro come deve essere eseguito.

Le esperienze del passato suggeriscono che col tempo ha perso il suo valore perché diventato solo una formalità con poca sostanza. Tuttavia, l’idea che troviamo nella nostra tradizione di un momento comunitario in cui i membri riconoscono le loro mancanze in pubblico e ascoltano la correzione offerta dagli altri deve essere una possibilità per noi oggi.

La consapevolezza che tale incontro porterà poi alla confessione sacramentale e arricchirà una confessione che altrimenti potrebbe essere una formalità è un’ulteriore indicazione del valore del capitolo delle colpe. Per trovare un equilibrio, è possibile che la comunità si benefici anche di un “capitolo delle grazie”, in cui la comunità come comunità riconosce gli aspetti positivi della comunità e di ciascun membro. 4) La riunione comunitaria, come prevista dal capitolo 15 della Regola di Sant’Alberto, invita la comunità a discutere della salute della comunità e degli elementi di ordine o di disordine presenti nella comunità. Riconosce la possibilità che nella comunità esistano degli eccessi e raccomanda di affrontarli con carità. Il testo ci invita a prestare attenzione a tutte le parole: riunirsi come comunità, la domenica o in altri giorni, per discutere sul bene della comunità e della presenza o assenza di ordine nella comunità. Inoltre, la comunità deve essere consapevole di eventuali eccessi nella sua vita, troppo lavoro, troppo poco lavoro, troppa ricreazione, troppa poca ricreazione, troppa liturgia, troppa poca liturgia, troppo silenzio, troppo poco silenzio. Una volta individuati gli eccessi, questi devono essere corretti con amore nei confronti della comunità e di ciascuno dei suoi membri. È in questo modo che l’opera di salvezza continua.

Dobbiamo anche dare spazio all’idea che il priore di una comunità o una persona diversa possa offrire una riflessione spirituale che aiuti i membri a esaminare la propria coscienza e 11 proprio comportamento. Questo esercizio può essere di grande aiuto per la comunità quando il priore è in grado di presentare gli ideali della vita religiosa in modo incoraggiante e attraente, incoraggiando così i frati a essere il più autentici possibile nel loro modo di vivere la vita e nel modo in cui si sta edificando la comunità.

Tutti questi approcci fanno parte della cultura presente nella Chiesa e nelle nostre comunità religiose. Essi richiedono che ogni membro della comunità assuma la responsabilità del proprio stile di vita e del benessere della comunità stessa. In ultima analisi, tutto ciò risponde alla preghiera di Gesù affinché tutti siano una cosa sola, come lui e il Padre sono una cosa sola. Risponde alla convinzione che la nostra unità si trova in Cristo Gesù. Lui è la vite e noi siamo i tralci. E risponde al desiderio di Gesù di andare alla ricerca di chi si è smarrito, affinché nessuno si perda.

Il Giubileo dei religiosi Mettere le cose a posto nell’anno del Giubileo Papa Francesco, nella lettera Spes non confundit che annuncia l’Anno Giubilare 2025, ne ricorda il significato con queste parole: “È un richiamo antico, che proviene dalla Parola di Dio e permane con tutto il suo valore sapienziale nell’invocare atti di clemenza e di liberazione che permettano di ricominciare: «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti» (Lv 25,10)”.

Inoltre, il Dicastero per la Vita Consacrata ha voluto offrire la propria riflessione proponendo il tema “Pellegrini di speranza sulla via della pace”, invitando i religiosi di tutto il mondo a dar vita a celebrazioni giubilari proprie e, allo stesso tempo, a organizzare i loro pellegrinaggi a Roma.

Cosa può significare per noi il tema “Pellegrini di speranza sulla via della pace”? Seguendo la lettera indirizzata alle conferenze dei superiori religiosi, esaminiamo i tre percorsi suggeriti nella lettera: il grido dei poveri, la cura della nostra casa comune e la solidarietà come vie per la pace.

Il grido dei poveri

Ascoltare il grido dei poveri è un esercizio contemplativo. È un incontro con Dio, perché il grido di cui parliamo non riguarda un grido qualsiasi, ma quello che lo Spirito ha dato agli uomini (Rm 8), il grido che proviene dagli strati più profondi della loro vita, dove si incontrano l’anima, lo spirito e la realtà del mondo. In quelle profondità il cuore umano, in totale sincerità, grida di essere unito a Dio e di essere libero da tutto ciò che gli toglie la dignità. Oggi il grido degli sfollati riecheggia in tutto il mondo, in tutte quelle persone che hanno dovuto lasciare le loro case per cercare sicurezza e un miglior tenore di vita. È solo un esempio. Un altro è il grido del cuore umano che reagisce al tipo di cultura della società odierna che rende la persona umana nient’altro che un consumatore di beni e non è interessata a ciò che le persone hanno da offrire grazie ai doni ricevuti da Dio.

Come carmelitani, abbiamo imparato a riconoscere la dignità della persona umana che è viva grazie al dono di Dio. Dio ha messo così tanto di sé nella persona umana che la sua dignità è ora quella di chi è in dialogo con Dio ed è capace di amare gli altri con un amore che viene da Dio. La contemplazione ci unisce a Dio nell’ascoltare il grido dei poveri e nel rispondere ad esso con tutta l’energia e i doni che abbiamo ricevuto. Dio non si muove senza aver prima ascoltato il loro grido (Es 3,8). Gran parte del lavoro che si fa nel mondo in nome dell’aiuto ai poveri viene realizzato senza prima aver ascoltato il loro grido. Non sapendo ascoltare, offriamo le nostre soluzioni, che tendono a essere quelle che ci fanno comodo, invece di essere quelle che aiutano maggiormente le persone che vogliamo aiutare. Questo Giubileo è una chiamata per noi a sentire quel grido nell’ambiente che ci circonda e in generale nel mondo, e a rispondere con forza a quel grido una volta che lo abbiamo ascoltato.

Il Giubileo è un momento per rimettere a posto le cose. Le strade che sono diventate storte possono essere nuovamente raddrizzate. I rapporti che si sono incrinati possono essere restaurati. La dignità che è stata negata e calpestata può tornare a essere rispettata. Cosa

8vediamo quando guardiamo ciò che accade nel mondo? Potremmo rimanere colpiti da dò che accade nelle famiglie e dalla significativa disgregazione della vita familiare, dalle tante persone, molte delle quali giovani, la cui vita è distrutta dalla dipendenza da sostanze chimiche, dal numero di suicidi oggi, compresi quelli dei giovani, dall’inquinamento dell’aria e dell’acqua e dagli effetti del cambiamento climatico, dalla persistenza del problema dei senzatetto anche nelle società più ricche, dalla corruzione della politica e dall’incapacità di soddisfare i bisogni delle persone in materia di istruzione e assistenza sanitaria, e dalla violenza che viene commessa contro le donne e i bambini nelle sue molteplici forme. La risposta, come ci dirà Papa Francesco, è quella di vedersi reciprocamente come fratelli e sorelle. In definitiva, questo è il grido: vederci come figli dell’unico Padre e come sorelle e fratelli gli uni degli altri.

Cura della nostra casa comune La cura del creato e della sua ricchezza non dipende esclusivamente da convinzioni di fede.

La persona umana, con apertura e sincerità, con uno sguardo attento alla bellezza e un senso di giustizia, ha tutto ciò che serve per poter riconoscere i danni che si stanno arrecando alla nostra casa comune e l’enorme disuguaglianza che si verifica nell’ impiego delle risorse mondiali, alimentata dagli interessi acquisiti di persone che non si curano di nient’altro che della propria cerchia intima e degli imperi che hanno costruito.

La fede aggiunge una motivazione più profonda alla cura che abbiamo per la nostra casa comune. In una visione di fede, ci consideriamo beneficiari e non artefici, ci riconosciamo come custodi e non come gestori. Consideriamo il calore nelle relazioni tra di noi, con il creato e con il Dio della creazione, piuttosto che il freddo calcolo dei profitti. Se il nostro cuore non sanguina, se non diamo espressione al nostro grido e non raccogliamo il grido degli altri e della creazione stessa, non riusciamo a rispondere a una dimensione della nostra vita che ci è stata donata da Dio, la nostra capacità di riconoscere in Dio l’autore di tutto e colui che dà voce e risponde al nostro grido. È il grido dei poveri ed è il grido della creazione, che desidera che la dignità di ciascuno sia rispettata e coltivata attraverso l’amore per tutto ciò che il Creatore ci ha dato nei nostri fratelli e sorelle e nella nostra casa comune.

Noi carmelitani possediamo questa motivazione più profonda attraverso la nostra vocazione ad essere credenti contemplativi, a scorgere in profondità ciò che viene da Dio, quelli che sono i segni dell’amore di Dio nella nostra vita e nel mondo, e ad impegnarci contro l’idolatria che distrugge l’ambiente e distrugge le interrelazioni umane nello stesso modo in cui le azioni di Achab e Gezabele distrussero l’anima e la terra del loro popolo ai tempi di Elia. Le parole del Siracide ci parlano molto chiaramente oggi: “Allora sorse Elia profeta, come un fuoco; la sua parola bruciava come fiaccola. Per la parola del Signore chiuse il cielo e così fece scendere per tre volte il fuoco”. Quanto sei impressionante, ELIA! Quale gloria è pari alla tua?

Oggi sento da più parti la necessità di riaccendere il nostro interesse per la giustizia, la pace e l’integrità del creato e di muoverci con la Chiesa e le sue numerose organizzazioni e con le organizzazioni laiche in questo anno giubilare per far sì che il dono profetico di Elia al Carmelo sia parte di un vigoroso impegno per preservare la nostra casa comune e agire al fine di estinguere le disuguaglianze che esistono mondo che ci circonda, per dare a tutti il rispetto che la loro dignità richiede. Possiamo farlo con l’attenzione al nostro modo di vivere, con le nostre opere di carità e di compassione e con la nostra predicazione, momento privilegiato in cui possiamo aprire gli occhi e i cuori delle persone alla verità di dò che sta accadendo e alle esigenze di giustizia e di solidarietà.

Solidarietà

Ai tempi di Papa Giovanni Paolo II, la Chiesa ha iniziato a indicare la solidarietà come nuova parola per descrivere l’amore. Potremmo trovare ispirazione anche nell’idea di San Giovanni della Croce dice che l’amore supera ogni distanza. La solidarietà supera le distanze.

Crediamo in un Dio che non rimane a distanza, ma cerca in tutti i modi, compresa l’incarnazione del Verbo, di eliminare la distanza che potrebbe separarci. Allo stesso modo, come fratelli e sorelle, cerchiamo di superare la distanza e la separazione che caratterizzano le nostre vite. Stando vicini, ci conosciamo meglio, comprendiamo più chiaramente ciò che è necessario e abbiamo l’opportunità di vivere in empatia con coloro che la vita e Dio ci hanno dato come compagni di viaggio. Agli antipodi della solidarietà si collocano l’esclusione e il rifiuto. Nel mondo di oggi ci sono molte persone a cui il mondo vorrebbe dire: “Vattene!

Staremmo meglio senza di te”. La nostra vocazione alla solidarietà significa che siamo disposti ad abbracciare e custodire ogni figlio di Dio, in particolare i meno apprezzati e aiutarli a scoprire quanto valgono agli occhi di Dio. Stando vicino agli altri in modo solidale, comprendiamo la loro sofferenza, ascoltiamo il loro grido e condividiamo la loro condizione, finché camminando insieme riusciremo a trovare la nostra dignità. È così facile pensare che la mia vita potrebbe essere migliore senza il disagio di altre persone che sono fuori dalla mia cerchia di persone care. Il Giubileo ci ricorda il legame d’amore che ci lega a ogni figlio di Dio, e ci permette di tenere a mente quella frase che oggi abbiamo nelle nostre Costituzioni: “vedere con gli occhi di Dio e amare con il cuore di Dio” (Cost 81).

Nel corso dell’anno giubilare teniamo conto delle due date importanti per i religiosi consacrati: il 2 febbraio, Giornata mondiale della vita consacrata, e i giorni dall’8 al 12 ottobre dedicati al Giubileo della vita consacrata. Sebbene queste due date siano importanti di per sé, sappiamo che è attraverso un impegno costante durante tutto l’anno e oltre che potremo fare un po’ di strada per raggiungere gli obiettivi che ci siamo proposti per quest’anno. Roma non è stata costruita in un giorno. Non cambieremo nulla se non ci dedichiamo al dialogo costruttivo, alla valutazione e alla pianificazione insieme agli altri.

Nell’appello alla sinodalità nella Chiesa vediamo una felice coincidenza tra la spinta dell’anno giubilare e il modo in cui noi siamo chiamati a essere fratelli in comunità. Attraverso l’accettazione e l’apprendimento dell’arte della solidarietà, come dono e esigenza della Chiesa di oggi, ci impegneremo in quel tipo di dialogo che aprirà una nuova visione della realtà e susciterà l’impegno di tutti coloro che partecipano al dialogo che permette di identificare la verità di ciò che sta accadendo, nella Chiesa, nella vita delle persone e nel mondo in cui viviamo. Una volta riconosciuta questa verità, la risposta delle persone che credono nel Vangelo, che si impegnano a seguire Gesù Cristo e che ora vivono in comunità come consacrati, sarà chiara e decisa, dal momento in cui accetteremo la chiamata a partecipare a quest’opera, impegnandoci nella riflessione che ci condurrà sulla via della salvezza, in conformità con la nostra vocazione di consacrati che vivono in ossequio di Gesù Cristo. Tale dialogo è molto esteso. Si svolge a tavola, negli incontri comunitari, nei corsi di formazione permanente e nei capitoli. La sfida è partecipare, contribuire e imparare.

Conclusione

Vi offro queste riflessioni, non come risposta a tutte le nostre sfide, ma come parte di una riflessione che si sta portando avanti nel nostro Ordine, nell’ambito dei tre temi: la vita consacrata oggi, il riconoscimento e la correzione fraterna e la celebrazione dell’Anno Giubilare 2025.

Quando guardiamo a questi tre doni per noi e per la Chiesa, il nostro primo desiderio è di rendere grazie e poi di dedicare la nostra vita alle sfide che comportano. Carpe diem. Non lasciamo che questo momento passi senza esserci aiutati reciprocamente a comprenderlo e a rispondere alle sue sfide, confidando nel dono di Dio e nella nostra capacità di aprirci l’un l’altro a riconoscere ciò che ci è stato donato e a chiederlo sempre di più.

A tutti voi, fratelli, una parola di ringraziamento per la gioia di poter condividere con voi la vita da fratelli dell’ordine della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo. Quando visito le comunità del nostro Ordine, trovo sempre una grande ispirazione: fratelli che amano la loro vocazione e che cercano di trovare le vie più adatte per vivere coerentemente con la loro vocazione. Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica.

In questo Anno Giubilare recuperiamo la raccomandazione della nostra Regola, di indossare l’armatura di Dio e di fare tutto nella Parola del Signore. Così facendo potremo ottenere la salvezza per noi stessi e per tutti coloro con i quali viviamo e collaboriamo per l’edificazione del Regno di Dio.

Roma, 2 febbraio 2025    Míceál O’Neill, O.Carm. Priore Generale